Nella Sua Ultima Cena, l’ultima sera con i Suoi, Gesù vive momenti intimi, che passano da sensazioni di paura, di terrore per quanto dovrà accadere di lì a poco! Una sottile solitudine rappresentata dal non sentirsi pienamente compreso da chi amava. Tradimenti ingiustamente attualizzati ed ingiusti, timore di aver perso l’amore del Padre, fino a quella consapevolezza che Tutto è dato anche se sembrerebbe apparire è preso con forza. Il Corpo che viene donato quale atto “di amore”. Per i nostri cuori, per occhi attenti ed empatici, oggi, ci viene offerta la possibilità di “accogliere” il dono di Grazia. Nel Cenacolo quella sera e tutti i momenti vissuti, rappresentano quello che per la liturgia del cristianesimo è definito come l’inizio del “Triduo Sacro”, ovvero i giorni che rappresentano la vera urgenza dell’Amore espresso per la salvezza dell’uomo. Il Giovedì Santo, Ultima Cena Gesù la celebra nell’usanza della tradizione ebraica con coloro che ha scelto a sequela (non dimentichiamo che per la Chiesa universale è anche la Giornata dedicata al Sacerdozio). Il Suo Cuore lo sa, il Suo Cuore lo sente. Il tradimento, anzi diciamo pure, i tradimenti, quel senso di abbandono nell’ora della prova da parte di coloro che ha amato, credo siano una delle pagine più dolorose di tutta la storia biblica neo testamentaria, ad esprimere un grande Amore non accolto, respinto, ostacolato, combattuto, condannato. L’essere umano ha dura cervice, non capisce o se lo fa, finge di capire per accomodare azioni, pensiero, gesta come per giustificare mancanze, soprusi, abusi, dolori inferti come colpi mortali nei cuori dei fragili.

La “tavola del Signore” (1Cor 10,21) è l’immagine che apre la celebrazione della Pasqua, a dire che nella comunità dei discepoli di Cristo la tavola rimane, ancora oggi, il luogo dell’ascolto della parola del Signore, il luogo della sua presenza, il luogo della sua memoria. È attorno alla tavola del Signore che accadono gli avvenimenti narrati dalle tre letture bibliche della Missa in Coena Domini. La tavola del Signore è sempre la tavola della libertà e della liberazione. Tavola del Signore è la tavola eucaristica della piccola comunità cristiana di Corinto. È la tavola alla quale si celebra quella che l’apostolo Paolo chiama “la cena del Signore” (1Cor 11,23-32). È la tavola attorno alla quale non si può “umiliare chi non ha niente”, e alla quale non si può partecipare impunemente senza “discernere il corpo del Signore”. La cena del Signore è il luogo della comunità di vita. Tavola del Signore è la tavola dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli la sera prima di morire. È la tavola del pane spezzato e del calice donato, la tavola dove il Maestro e Signore lava i piedi. È la tavola del “mandatum novum”, del comandamento nuovo dell’amore. Ma è anche la tavola alla quale Gesù siede con l’amico che lo ha tradito, con colui che negherà di conoscerlo, con i discepoli che lo lasceranno solo davanti alla morte. La tavola del Signore è sempre anche tavola di peccatori perdonati. “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi” (Lc 22,14), confida Gesù ai discepoli, eppure quell’ultima cena è stata il momento della crisi più grande nella vicenda di Gesù con i suoi; quell’ultima tavola è stata il luogo della rivelazione della disgregazione imminente della comunità.

A quella tavola è seduto anche colui che lo tradisce, e Gesù lo esprime con la figura della prossimità delle mani: “Ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me sulla tavola” (Lc 22,21). È la mano di Giuda che poche ore prima lo aveva venduto ai capi dei sacerdoti, perché aveva capito, forse prima degli altri, che Gesù non aveva più nessun futuro. Gesù ha deluso le sue speranze e lui lo tradisce. Giuda, con la non verità delle sue parole, fa della tavola dell’ultima cena il luogo della menzogna, “sono forse io, Rabbi, (a tradirti)” (Mt 26,25). Sì, l’ultima cena avviene nel clima, anzi avviene nel momento stesso della più radicale forma di contraddizione dell’amore: il tradimento dell’amico. A quella tavola è seduto Pietro, la roccia, che da lì a poco avrebbe rinnegato di conoscerlo. Pietro, con la promessa infedele, “io darò la mia vita per te”, fa della tavola dell’ultima cena il luogo della pretesa fedeltà, tanto ostentata quanto pusillanime; lo rinnegherà infatti non di fronte all’autorità che ha potere di vita o di morte, ma di fronte a una giovane serva della quale non regge neppure una generica accusa. A quella tavola sono seduti anche gli altri discepoli dei quali Marco non esita a dire che qualche ora dopo “tutti lo abbandonarono e fuggirono” (Mc 14,50).

L’ora della croce è l’ora dell’antisequela. La comunità stava andando a pezzi, Gesù ha assunto il tradimento di chi gli era amico, ha accettato il rinnegamento di colui al quale ha dato più fiducia e l’abbandono di coloro che aveva personalmente scelto e chiamato per nome alla sua sequela. L’ultima cena rappresenta così per Gesù la situazione nella quale vivere per sé ciò che ha predicato agli altri: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt 5,44); non chiede di perdonare un’astratta categoria di “nemici” e tantomeno i nemici di altri ma i “vostri nemici”, ossia i nemici concreti, le persone che vi fanno del male. Non si deve in alcun modo cercare di attenuare la forza dello scandalo che sta all’origine della chiesa, cioè che i discepoli seduti con Gesù a tavola alla vigilia della sua passione hanno fatto del male a lui, il loro fratello. Il peccato è sempre solo questo: fare del male al fratello. Gesù sta perdonando i suoi amici tramutati in suoi nemici. La tavola dell’ultima cena è una tavola alla quale Gesù si siede con dei peccatori che sono i suoi discepoli, che lui personalmente aveva scelto e chiamato, così che questa ultima tavola mostra ancor di più la verità delle sue parole: “Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17). Alla violenza del tradimento, alla brutalità del rinnegamento e alla viltà della fuga, in definitiva al peccato di quell’ora, Gesù si sottomette stando seduto a una tavola con coloro che l’avrebbero tradito, rinnegato e abbandonato, cioè nella forma passiva dello spezzare il pane e condividere il calice di vino, dunque rinunciando al potere, alla violenza, alla vendetta. Risponde invece perdonando l’imperdonabile, offre la riconciliazione donando “il calice del mio sangue versato per voi e per tutti in remissione dei peccati” come narra la forma liturgica dell’istituzione. Prepariamo lo spirito ad accogliere il “dono” che possa fruttificare anche nelle nostre vite, perché non sia Ultima Cena, perché non sia lotta e competizione, perché non sia la nostra vita spina nel fianco in coloro che incontriamo ma sia seme fecondo per la vita rinnovata.

Prof.ssa Maria Pia Cirolla – Teologa