Cosa può dire un Crocifisso sconfitto agli occhi del mondo ad un cuore, cioè ad un io strutturalmente inquieto e ancor più, se è possibile, provato dalla complessità contraddittoria del contesto culturale in cui oggi siamo chiamati ad affrontare il talora faticoso “mestiere di vivere”? Un Crocifisso che si rivolge ad un cuore inquieto non è l’incontro di due problemi, la somma di due negativi? Cosa può mai venirne di buono?
La celebrazione odierna nella liturgia della Chiesa indica e aiuta a meditare su un grande mistero, scandalo per molti, invenzione per altri, crudeltà per altri ancora, quando addirittura non si emette il concetto di irreale e fantasioso, questo mistero che è invece indice della salvezza è la “croce” del Signore Nostro Gesù cristo. Oggi è venerata come “esaltazione”, che lascia molte ombre e provoca profonde lacerazioni in chi non ne comprende ancora appieno il suo vero significato. “Dammi il cuore”, mentre meditiamo il mistero che vede in questo simbolo di salvezza la vita del Giusto realizzare il piano della salvezza, questa voce incessante, instancabile di offrire a Lui il nostro cuore. Cosa si intende dunque in questo dare il cuore se non il dammi tutto te stesso. Cos’è, infatti, il cuore, se non il centro del mio io? Il luogo del bisogno, del desiderio che mi costituisce, destato in ogni istante dalla realtà che lo urge ad un continuo coinvolgimento?
Il cuore è l’autentica molla di ogni mio atto di libertà. Il sussurro del Crocifisso (la tua voce mi sussurra) ci sorprende in ogni istante del nostro vivere. Ma un crocifisso non è uno sconfitto? Come può rivolgermi una richiesta così ardita? Tanto più che il mio cuore, come quello di ogni uomo, è attraversato dall’insopprimibile inquietudine di cui parla Sant’Agostino. La risposta dovrebbe riempire di stupore, eppure non la doniamo, non offriamo il cuore, ma le briciole di una fede sterile con qualche spiraglio alla carità. In risposta ad una simile richiesta, l’atteggiamento dovrebbe essere solo quello di lasciarsi guardare da Gesù: ecco la strada perché la sete del nostro cuore venga saziata, perché il desiderio che ci costituisce sia compiuto. E così nel Volto di Gesù che ci guarda prende forma il nostro volto. Ogni uomo, infatti, prende forma dallo sguardo di quell’Uomo su di lui, che chiama la sua libertà, la sua vocazione a coinvolgersi con Lui. Lasciarsi guardare e guardare sono questi i due momenti fondamentali nel contemplare il senso della Croce di Cristo. Tutto qui, nulla di più, nulla di meno.
Spesso pensiamo, errando, che quelle che noi indichiamo come ingiustizie, cattiverie tristemente inflitte, croci di malattie o inconvenienti della vita, siano da attribuire ad una “punizione del Cielo per le nostre presunte o reali colpe” compiute verso qualcuno o qualcosa, facendo di Dio quasi un mercenario, uno che scambia la salvezza con doni, fioretti, opere buone. Ma non comprendiamo fino in fondo la verità, che cioè il Volto del Crocifisso è il Volto di Colui che si è fatto carico di tutto il male degli uomini. Di tutto il peccato. L’ha preso su di Sé. Del mio male, del mio peccato. Del tuo male, del tuo peccato. Del nostro male, del nostro peccato. Del male di tutti, del peccato di tutti. Per questo nel Suo volto è inscritto il volto di ogni uomo che soffre. “Ecce homo” (Gv. 19,5): è davanti a noi il volto dell’Innocente crocifisso e risorto. Crocifisso e risorto nonostante il nostro “cuore sia sempre ingrato”. Ogni giorno, implacabilmente, a nessuno di noi viene risparmiata la propria razione di dolore e di orrore. Neanche a Lui, mentre andava deciso verso il compiersi della Sua ora, è stata risparmiata l’angoscia più profonda, fino a toccare l’abisso della desolazione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34; Mt 27,46). Dov’era allora il volto del Padre? Da quel giorno nessun uomo può dirsi solo nella sua angoscia mortale: Colui che poteva non essere abbandonato, né morire, ha voluto condividere fino in fondo l’orrore del peccato per farci diventare giusti.
Noi, i cristiani, siamo i giusti che vivono di fede. Ecco un nuovo modo possibile di leggere il valore della “croce”: gli innamorati guardano con un affetto tutto particolare i luoghi o gli oggetti legati alla persona amata: il posto dove si sono conosciuti, la foto di un momento speciale, il dono che ha accompagnato una dichiarazione di amore. Tutto questo conserva un valore unico. La Croce è il luogo dove Gesù è venuto a cercare con grande misericordia l’umanità smarrita. Proprio lì il Figlio di Dio divenne solidale con tutti gli uomini, specialmente con quelli che soffrono e con quelli che apparentemente hanno perduto ogni speranza. La Croce ci parla di questa relazione particolare che Cristo ha con ogni persona che si apre alla sua consolazione e al suo perdono. Comprendere il significato autentico della Croce non è semplice. Per un cristiano esaltare la Croce vuol dire entrare in comunione con la totalità dell’amore incondizionato di Dio per l’uomo. Abbracciare la Croce è un atto di fede per il quale vogliamo vivere soltanto dell’amore che ci offre Cristo. Il Signore continua ad attrarre dalla Croce una folla di uomini e donne: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv. 12, 32). È facile immaginare la passione e la convinzione con la quale Gesù aveva pronunciato queste parole, mentre si avvicinava il momento nel quale avrebbe dato la vita.
Per lui la Croce è il momento della vittoria definitiva, la via per conquistare i cuori che tanto ama. È il trono dal quale egli regna e che è il simbolo della “vittoria dell’amore sull’odio, del perdono sulla vendetta, del servizio sul dominio, dell’umiltà sull’orgoglio, dell’unità sulla divisione”. Il Crocifisso ci fissa e ci chiede se siamo ancora decisi a mantenere fede a quanto Gli abbiamo promesso in quell’ora di grazia. Cerchiamo di non vivere nel terrore per paura di perdere la vita, perché tanto la vita la perderemo comunque prima o poi, per una ragione o per l’altra: questa terra non è per sempre! Per noi il “per sempre” è il Cielo, quella è la nostra patria! La croce di Cristo è conficcata nel cuore del mondo, nel centro della storia. La sua Ora (come Gesù chiama, nel Vangelo di Giovanni, il compimento della sua Passione) è l’ora capitale dell’intera vicenda cosmica. Lì si deve appuntare lo sguardo del cristiano. Anche le tenebre assumono significati diversi nella meditazione e nella mistica cristiana.
Ci sono le tenebre dell’ignoranza e dell’errore; ci sono le tenebre del male che Agostino pensa come mancanza di bene, quindi perdita della luce, inettitudine della vista. Ci sono le tenebre della notte che scendono come un sudario su Gesù che muore in croce: così ne scrive Charles Péguy, ci sono le tenebre della Notte Oscura di San Giovanni della croce: notte in cui l’uomo deve sprofondare per attingere all’accecante bellezza dell’intimità con Dio. Attratti a Lui dalla croce siamo sepolti con Lui nella morte, possiamo risorgere con Lui per la vita eterna e vedere il volto del Padre (Cfr., Rm 6,3-4). Così possiamo godere della potenza generatrice dell’acqua stillata dal suo fianco sulla croce che, altrimenti, non potremmo nemmeno immaginare. Così possiamo lasciarci avvincere dallo Spirito che Lui ha consegnato dall’alto della croce. Solo così: dopo aver sprofondato lo sguardo sul miracolo di vita invincibile di quel grumo di sangue del capo di Gesù, Figlio fatto carne, che fa tutt’uno con il cuore di Dio. Non lasciamo che questo mistero sia reso vano.
Prof.ssa Maria Pia Cirolla – Teologa –