“La Carità: dono totale di sé!!!”
di Maria Pia Cirolla
La “carità non abbia mai finzioni” si legge nel passo di san Paolo nella lettera ai Romani (Rm 12, 1 ss.) ed ecco che per noi è spunto di riflessione per sviluppare il pensiero che abbiamo in animo di condividere oggi.
La carità, come azione umana indica la com-partecipazione alla difficoltà, alla sofferenza, al dono che si fa verso chi viene incontro a noi nella necessità. Ma carità indica anche uno stato di donazione di parte del proprio sé all’altro bisognoso del nostro amore, della nostra caritas, della nostra cura.
Ci vengono in mente, come per andare a rafforzare la nostra meditazione, due episodi narrati nella scrittura: il primo è quello che vede le due sorelle di Lazzaro Marta e Maria, quasi rimproverare a Gesù l’assenza che avrebbe potuto aiutarle a non far morire il fratello e l’amico Lazzaro, si legge infatti “se tu fossi stato qui, non sarebbe morto”.
L’altro episodio, per quanto paradossale possa apparire, è quello del rinnegamento di Pietro, ma non il fatto in sé, quanto piuttosto l’incrocio di sguardi tra Gesù e Pietro dopo che lo aveva da poco rinnegato persino di conoscerlo per paura di venire arrestato e ucciso. In questo sguardo è espressa tutta la misericordiosa carità di Gesù verso l’incapacità alla fedeltà dichiarata, l’amore per la creatura che vive il disagio della mancata determinazione alla promessa data.
Entrambi gli episodi citati dicono di noi, della nostra natura umana bisognosa di conferme continue al nostro operare, dicono del bisogno estremo contenuto nel conforto della presenza e ci dicono della fragile natura che si piega alle condizioni che premono nell’animo dall’esterno. Ma in entrambi i casi cosa rende speciale e solidifica il valore della carità così come la vogliamo noi intendere? La qualità che rende straordinaria la relazione è l’atteggiamento di perfetta adesione alla promessa fatta di Gesù. Ecco che ogni intenzione, ogni azione, ogni nostro proposito è reso speciale dall’atteggiamento fedele, coerente del maestro, del Signore.
La Sua carità espressa con l’assenza di giudizio, dice come viene intesa la relazione: l’amore non conosce mai finzioni, non conosce davvero limiti della natura quando passa dal cuore. Infatti solo Gesù li amò fino alla fine, ovvero fino al dono totale di sé, senza calcoli, senza interesse, senza orpelli che abbelliscono lo scenario esteriore, ma con la presa di coscienza che amare è anche un pochino un morire a noi stessi, a quanto di più caro urla all’interno delle nostre umane necessità o bisogni. Il primo episodio di Marta e Maria, indicativo è della natura umana che richiede quel privilegio di intimità di relazione frutto del sentimento. Ma Gesù che conosce l’inclinazione del cuore, non risponde neanche a quanto viene a Lui chiesto, ma piange per la morte fisica del suo amico Lazzaro, che poi sappiamo bene gli ridarà la vita.
Nel secondo episodio invece viene ben messo in evidenza la natura umana: non tutti sono predisposti alla fedeltà, non tutti sono dotati di adesione piena ad un progetto accogliendo anche l’aspetto più duro che potrebbe essere rappresentato dal rinnegamento del sentimento in sé o il cedere alla seduzione dell’ambiguità cancellando quanto invece si è da sempre sostenuto di nutrire.
Questo alla maniera umana, ovviamente! Ma se parliamo della relazione creatura/ Creatore, le cose cambiano e diremmo anche di molto. Ciò che rende saldo in questo caso il rapporto non si basa sui sentimenti umani e la loro struttura fragile, ma sulla fedeltà di Colui che è la fonte principale della carità fedele, Dio. Una delle differenze maggiori tra la visione biblica della santità e quella scolastica sta nel fatto che le virtù non vengono fondate tanto sulla “retta ragione” (la recta ratio aristotelica), quanto sul kerygma; essere santo non significa seguire la ragione (spesso comporta il contrario!), ma seguire Cristo. La santità cristiana è essenzialmente cristologica: consiste nell’imitazione di Cristo e, al suo vertice – come dice il Concilio – nella “perfetta unione con Cristo”.
Per cogliere l’anima che unifica tutte queste raccomandazioni, l’idea di fondo, o, meglio, il “sentimento” che Paolo ha della carità bisogna partire da quella parola iniziale: “La carità non abbia finzioni!”. Questa non è una delle tante esortazioni, ma la matrice da cui derivano tutte le altre. Contiene il segreto della carità. Il termine originale utilizzato da san Paolo e che viene tradotto “senza finzioni”, è anhypòkritos, cioè senza ipocrisia. Questo vocabolo è una specie di luce-spia; è un termine raro che troviamo utilizzato nel Nuovo Testamento quasi esclusivamente per definire l’amore cristiano. L’espressione “amore sincero” (anhypòkritos) ritorna ancora nella 2 lettera ai Corinzi 6, 6 e nella prima lettera di Pietro 1, 22. Quest’ultimo testo permette di cogliere, con tutta certezza, il significato del termine in questione, perché lo spiega con una perifrasi; l’amore sincero dice in cosa consiste, in quell’amarsi intensamente “di vero cuore”. San Paolo, dunque, con quella semplice affermazione: “la carità sia senza finzioni!”, porta il discorso alla radice stessa della carità, al cuore.
Quello che si richiede dall’amore è che sia vero, autentico, non finto. Anche in questo l’Apostolo è l’eco fedele del pensiero di Gesù; egli, infatti, aveva indicato, ripetutamente e con forza, il cuore, come il “luogo” in cui si decide il valore di ciò che l’uomo fa (cfr. Mt 15,19).
Possiamo parlare di un’intuizione paolina, a riguardo della carità; essa consiste nel rivelare, dietro l’universo visibile ed esteriore della carità, fatto di opere e di parole, un altro universo tutto interiore, che è, nei confronti del primo, ciò che è l’anima per il corpo. Ritroviamo questa intuizione nell’altro grande testo sulla carità, che è 1 Cor 13. Ciò che san Paolo dice lì, a osservare bene, si riferisce tutto a questa carità interiore, alle disposizioni e ai sentimenti di carità: la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si adira, tutto copre, tutto crede, tutto spera.
Nulla che riguardi, per sé e direttamente, il fare del bene, o le opere di carità, ma tutto è ricondotto alla radice del volere bene. La benevolenza viene prima della beneficenza.
È l’Apostolo stesso che esplicita la differenza tra le due sfere della carità. Dice che il più grande atto di carità esteriore (il distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze) non gioverebbe a nulla, senza la carità interiore (cf. 1 Cor 13,3). Sarebbe l’opposto della carità “sincera”. La carità ipocrita, infatti, è proprio quella che fa del bene, senza voler bene, che mostra all’esterno qualcosa che non ha un corrispettivo nel cuore. In questo caso, si ha una parvenza di carità, che può, al limite, nascondere egoismo, ricerca di sé, strumentalizzazione del fratello, o anche semplice rimorso di coscienza. Sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro carità del cuore e carità dei fatti, o rifugiarsi nella carità interiore, per trovare in essa una specie di alibi alla mancanza di carità fattiva. Sappiamo con quanto vigore la parola di Gesù (Mt 25), di san Giacomo (2, 16 s) e di san Giovanni (1 Gv 3, 18) spingono alla carità dei fatti. Sappiamo l’importanza che san Paolo stesso dava alle collette a favore dei poveri di Gerusalemme. Del resto, dire che, senza la carità, “a niente mi giova” anche il dare tutto ai poveri, non significa dire che ciò non serve a nessuno e che è inutile; significa piuttosto dire che non giova “a me”, mentre può giovare al povero che la riceve. Non si tratta, dunque, di attenuare l’importanza delle opere di carità, quanto di assicurare a esse un fondamento sicuro contro l’egoismo e le sue infinite astuzie. San Paolo vuole che i cristiani siano “radicati e fondati nella carità”, cioè che la carità sia la radice e il fondamento di tutto.
Quando noi amiamo “dal cuore”, è l’amore stesso di Dio “effuso nel nostro cuore dallo Spirito Santo” (Rom 5,5) che passa attraverso di noi. L’agire umano è veramente deificato. Diventare “partecipi della natura divina” (2 Pt 1, 4) significa, infatti, diventare partecipi dell’azione divina, l’azione divina di amare, dal momento che Dio è amore!
Alla radice di ogni azione animata dalla carità ci sta il sentimento che spinge essere ad immagine di Colui che manda e che ci dice qual è il comandamento che tra tutti resta vivo e fattivo: l’Amore. Senza questo Amore difficile agire nella carità, operare con carità, far respirare la grazia!