Non amo attendere nelle file. Non amo attendere il mio turno. Non amo attendere il treno. Non amo attendere prima di giudicare. Non amo attendere il momento opportuno. Non amo attendere un giorno ancora. Non amo attendere perché non ho tempo e non vivo che nell’istante. D’altronde tu lo sai bene, tutto è fatto per evitarmi l’attesa: gli abbonamenti ai mezzi di trasporto e i self-service, le vendite a credito e i distributori automatici, le foto a sviluppo istantaneo, i telex e i terminali dei computer, la televisione e i radiogiornali. Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi. Ma tu Dio tu hai scelto di farti attendere il tempo di tutto un Avvento. Perché tu hai fatto dell’attesa lo spazio della conversione, il faccia a faccia con ciò che è nascosto, l’usura che non si usura. L’attesa, soltanto l’attesa, l’attesa dell’attesa, l’intimità con l’attesa che è in noi, perché solo l’attesa desta l’attenzione e solo l’attenzione è capace di amare.
Delle feste liturgiche che la Chiesa offre ai fedeli, l’Avvento è quello dal sapore meno penitenziale rispetto all’altro tempo forte, ovvero la Quaresima che ci conduce alla Pasqua della Nostra salvezza. Nel calendario le quattro settimane nel Rito tradizionale e nelle sei settimane nel rito ambrosiano, predispongono lo spirito dei fedeli ad accogliere il dono salvifico della “Grazia” che si fa carne. “Et Verbum caro factum est”… e il Verbo si fece Carne. Quante volte abbiamo sentito proclamare nel Vangelo della Notte della salvezxza queste parole profetiche, ma quante rispettive volte ne abbiamo accolto tutta la grandezza, la profondità e la ricchezza che esse contengono. La vita di ognuno è un’attesa. Il presente non basta a nessuno. In un primo momento, pare che ci manchi qualcosa. Più tardi ci si accorge che ci manca Qualcuno. E lo attendiamo. L’avvento è tempo di attesa, di preparazione ma soprattutto è tempo di gioia e di speranza. Una coppia che attende un bambino certamente si impegna a preparare tutte le cose necessarie per accogliere la nuova vita che sarà piccola e indifesa. Si mettono in atto tutte le iniziative che permettano una nascita serena. La mamma rallenta il suo ritmo e tutta l’attenzione è posta su colui che deve venire. Si sente che il tempo sfugge, ormai sta giungendo il momento in cui tutto cambierà, perché la vita rinasce. Così l’Avvento è tempo di gioia, di speranza perché viene la luce che dissipa ogni ombra di morte. Non si può essere tristi quando si conosce la grandezza del dono. La gioia che viene non può lasciarci addormentati.
Se solo avessimo il “coraggio di sperare davvero ferocemente tutti insieme” la solitudine, l’angoscia, l’ansia dell’oggi e del domani, la violenza, il sopruso, la menzogna, il desiderio di vendetta, il desiderio di potere, la voracità del possedere oggetti e persone per sentire meno il vuoto esistenziale che ci divora, sarebbe tutta un’altra attesa. “Io dormo, ma il mio cuore veglia”: in tutta la Scrittura, sia nell’Antico come nel Nuovo Testamento (qui siamo nel Cantico dei Cantici), emerge la dimensione dell’attesa, dimensione che si è lentamente ma profondamente radicata nella letteratura non solo religiosa; talvolta celandosi dietro l’opposta sponda della negazione e dell’assenza, come accade nel Beckett di “Aspettando Godot”, 1952, in cui due personaggi attendono l’arrivo di un signore che di giorno in giorno manda a dire che non potrà venire, ma che sicuramente si farà vedere il giorno dopo, in un rimando costante del senso, delle sicurezze d’occidente, o anche della pretesa di trovare Dio come e quando l’uomo razionale vuole e dispone. Cui fa da contraltare l’attesa del monaco Thomas Merton espressa soprattutto in una lirica dedicata proprio all’Avvento in cui gli umani intelletti “sono più tranquilli delle greggi/ che pascolano alla luce del sole”. Il fatto è che nel mondo laico l’Avvento si risolve in una spasmodica attesa che si carica di volta in volta di aspettative d’amore, di ricchezza, di felicità qui ed ora. Anche se con sfumature che, nel caso di Marcel Proust e della sua “Ricerca del tempo perduto”, diventano coscienza dell’inutilità del rimpianto e dell’attesa di ripercorrere sempre le stesse strade e di rivedere le medesime persone di tanto tempo fa. Il tempo trascina inesorabilmente ogni cosa umana con sé, lasciando in alcuni la percezione dell’unica persistenza: quella della radice di tutto ciò che vive. Avvento vuol dire invece attendere qualcosa che è accaduto una volta storicamente ma che continua a riempire di senso ogni cosa dopo essersi volontariamente sottoposto alle leggi del tempo e dello spazio. Quello struggente senso di attesa si è annidato nelle pieghe della grande poesia, come nel caso di Eliot che in “Mercoledì delle Ceneri” (1930) ricorda “la promessa del verbo non detto e non udito” di redimere il consumarsi del tempo altrimenti attanagliato dal sospetto dell’insensatezza. Perché in fondo è questo il senso vero dell’Avvento: affidare la propria attesa a qualcosa di diverso dai desideri umani, alla ricerca di un senso ultimo e nel ricordo di un evento che ha cambiato il mondo. È una sensazione diffusa che la nostra sia un’epoca privata di quell’orizzonte dell’altrove temporale che ha caratterizzato invece l’esperienza di gran parte del secolo scorso. “Che fine ha fatto il futuro?” si chiedeva già dieci anni fa il titolo di un libro di Marc Augé(Elèuthera, 2009). Il tramonto del «sole dell’avvenire» delle grandi utopie del Novecento sembra aver ceduto il passo a un crepuscolo in cui l’idea stessa di avvenire è stata smarrita. La cultura dell’immanenza nega il futuro; si afferma il fatto compiuto, inesorabile, schiacciante; formule che parlano di fine della storia, globalizzazione e leggi del mercato definiscono la realtà circoscrivendola nell’ambito di fenomeni su cui sembra impossibile e inutile intervenire. All’immanenza e alla tirannia del presente corrisponde anche la mitologia dell’eternità, della gioventù perenne.
Nella sapiente pedagogia della Chiesa l’Avvento è il tempo dell’anno liturgico in cui la parola ci aiuta a orientare la nostra vita all’attesa e all’accoglienza di un Dio che ci ha teso la mano ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. La speranza troppo piccola è quella di coloro che si accontentano di ciò che riescono a prevedere, che sperano di arrivare a fine mese, che sperano di non ammalarsi per il covid o l’influenza, che sperano di poter andare a sciare o che la diagnosi della loro malattia non sia un “brutto male”. La speranza troppo piccola è quella che si pone una meta a portata di mano, che si fissa un traguardo vicino, forse non esaltante, ma, insomma, probabile. Ognuno ha un lungo elenco di speranze alle quali dona ascolto e speranze che diventano inevitabilmente certezze che appagano al tempo stesso necessità e progettualità di vita. Come vivere allora oggi la speranza? Cosa ci insegna il cammino dell’Avvento? Proviamo a dare tre riferimenti: Primo, la vita ha senso. Secondo, il senso della vita è andare verso la nascita di noi stessi, verso la nascita dell’uomo nuovo. Terzo, questa nascita inizia ora e durerà per sempre. Ecco, questi sono i capisaldi della speranza, che “viene sempre a noi vestita di stracci, perché le confezioniamo un abito da festa” (Cfr., P. Ricoeur). Nel nostro tempo, quel che manca non è tanto il coraggio di fare domande, quanto il coraggio di attendere una risposta. Vi sono troppi uomini, e anche grandi uomini, i quali pensano che l’unico atteggiamento autentico è quello della franca accettazione della disperazione nei confronti della vita. Forse una delle ragioni per cui Sartre assume questa posizione è perché sente che i cristiani si danno sempre una risposta troppo comoda a una domanda disperata che non hanno il coraggio di porsi. In questo caso la nostra lieta accettazione della risposta può essere un po’ meno che edificante. Può accadere realmente che i cristiani migliori si trovino proprio fra coloro che per un motivo o per un altro si reputano cattivi cristiani. Anche questo può far parte del mistero dell’Avvento e deve ricordarci le vie di Cristo, come dicono i Vangeli : Egli è venuto più prontamente e più volentieri per coloro che avevano più bisogno di lui, ossia per gli infelici, i peccatori, i disprezzati : per coloro che erano “vuoti”.
Allora, peccatori, insensati, folli, illusi, ultimi, rifiutati, accusati, condannati, senza speranza e senza più voce, rafforzate la Speranza, ricondurre il pensiero al desiderio che “nulla è impossibile a Dio” che si fa piccolo per far diventare noi grandi ed allora l’attesa non diventa dannazione, l’attesa non diventa dramma, l’aspettativa non delude, non tradisce non mente. Buon Avvento di speranze a chi non spera più !!! Può accadere realmente che i cristiani migliori si trovino proprio fra coloro che per un motivo o per un altro si reputano cattivi cristiani. Anche questo può far parte del mistero dell’Avvento e deve ricordarci le vie di Cristo, come dicono i Vangeli : egli è venuto più prontamente e più volentieri per coloro che avevano più bisogno di lui, ossia per gli infelici, i peccatori, i disprezzati : per coloro che erano « vuoti ».Può accadere realmente che i cristiani migliori si trovino proprio fra coloro che per un motivo o per un altro si reputano cattivi cristiani. Anche questo può far parte del mistero dell’Avvento e deve ricordarci le vie di Cristo, come dicono i Vangeli : egli è venuto più prontamente e più volentieri per coloro che avevano più bisogno di lui, ossia per gli infelici, i peccatori, i disprezzati : per coloro che erano « vuoti ».Può accadere realmente che i cristiani migliori si trovino proprio fra coloro che per un motivo o per un altro si reputano cattivi cristiani. Anche questo può far parte del mistero dell’Avvento e deve ricordarci le vie di Cristo, come dicono i Vangeli : egli è venuto più prontamente e più volentieri per coloro che avevano più bisogno di lui, ossia per gli infelici, i peccatori, i disprezzati : per coloro che erano « vuoti ».Può accadere realmente che i cristiani migliori si trovino proprio fra coloro che per un motivo o per un altro si reputano cattivi cristiani.
Prof.ssa Maria Pia Cirolla – Teologa