di Maria Pia Cirolla
Passato il Mese dei Santi e dei fratelli defunti, i giorni seguenti ci introducono nel pieno della stagione invernale. La caratteristica di questo periodo è un clima più freddo, piogge e una vistosa diminuzione delle ore di luce: una particolarità che non poteva passare inosservata agli antichi. Il sole piano piano cede il posto alla notte e alla oscurità, fino ad arrivare ai tre giorni più bui dell’anno in cui esso “muore”. Tutto questo ha suscitato sempre nell’uomo angoscia e inquietudine. Proprio per tale motivo le religioni precristiane svolgevano dei rituali con l’accensione di fuochi e luminarie che per una corrispondenza simbolica avrebbero dovuto aiutare il sole a rinascere. Quei giorni di sosta al buio, nei quali l’astro sembrava arrestarsi, costituivano il solstizio (Sōl – Sole, e sistĕre – fermarsi) d’inverno. Viviamo immersi in una infinità di notizie tragiche che mettono in luce lo stravolgimento del nostro mondo. Sentiamo il rintocco di echi di guerra, di morti innocenti, di stragi di diverso tipo, ma anche qualche buona notizia ad allietare. I nostri sorrisi si spengono, certe volte. Gli occhi, in modo fugace, cercano uno sguardo di intesa o scrutano dubbiosamente chi ci passa accanto. La libertà alcune volte è limitata, il lavoro per molti è ancora precario quando addirittura inesistente, il divertimento solo sembrerebbe avere preso una certa foga dopo il periodo di ristrettezze causa pandemia, almeno per alcuni e non per tutti. La luce del giorno si spegne presto, la pazienza dei bambini rinchiusi in casa si esaurisce velocemente, con l’arrivo dell’autunno che lascia il passo al fratello inverno. Nella nostra mente rimbalza con forza l’immagine della paura che inquieta, frena e rattrista per tanti fatti di cronaca di vita comune che in certi istanti diventano importanti, in altri ritornano nel loro anonimato, come mai esistiti. Anche a noi verrebbe da dire al Signore Gesù come hanno fatto i discepoli: “Quando finirà tutto questo?”. Anche la nostra pazienza ha un limite. Siamo cresciuti nella società della fretta e delle tante cose da fare, del futuro da programmare, degli impegni che non si possono rimandare e del tempo da riempire. Ma adesso?! Tutto si ferma nella più cupa incertezza su ciò che il futuro ci riserverà. O almeno certi giorni sembrerebbe essere questa la voce che si eleva al Cielo da più parti del mondo. Eppure l’Avvento è di nuovo arrivato, non come méta morale o di circostanza da ottemperare quanto piuttosto come possibilità di elevare, ancora con più forza, la frase che dice “salvami Signore che sembro essere perduto!”. Prima di lasciare pochi pensieri per il tempo speciale che ci si prospetta dinnanzi in attesa che sia compiuta la vita per e nella Grazia con la Venuta del Signore, il Salvatore, cerchiamo di raccogliere in poche righe quanto ha preceduto questo tempo cosiddetto forte che la Chiesa e coloro che si proclamano cristiani, si apprestano a celebrare. In questo anno il mese di novembre ha visto e vede tanti momenti forti a livello liturgico ma anche a livello sociale. Si è aperto il mese con al Solennità di Tutti i Santi, nostri amici presso Dio, che hanno avuto una sola certezza, che li ha visti poi negli onori degli altari, ovvero la loro fiducia cieca nel Vangelo, Parola fatta Carne ed alla quale hanno provato, riuscendoci ad uniformare la loro vita non solo con le parole ma con l’esempio nella vita. I Santi, le Sante di Dio sono creature umili, peccatori, ben consapevoli di esserlo, ma con nel cuore la certa speranza di essere trasformati con la Grazia a divenire a immagine del Santo, il Cristo Salvatore.
Poi a questa meravigliosa celebrazione, ha avuto seguito il ricordo e la memoria di Tutti i nostri fratelli, amici, parenti defunti, che sono tornati nella Casa del Padre. Spesse volte ci viene chiesto il bisogno, la necessità di determinare una intera giornata alla celebrazione di coloro che non sono più tra noi. Ebbene la ragione è semplice, in verità, ma complessa da accogliere con la sola ragione. Dedicare una giornata per ricordare quelli e quelle anime di persone cha abbiamo amato e che ci hanno amato in questa vita, sta ad indicare proprio quale debba essere la prospettiva di ogni credente, ovvero il cammino verso quella Patria che è quel già ma non ancora pienamente a noi rivelato. A queste due grandi metafore l’essere cristiano dovrebbe sempre porre le sue energie: vivere cercando le possibilità che spingano alla santità nell’umiltà ma ricordandosi che la vita è il breve passaggio a calcare le scene di questo mondo. Non ci soffermiamo su tutte le altre feste del mese di novembre fatta eccezione per la Solennità di Cristo Re che chiude il cosiddetto ciclo dell’Anno Liturgico Ordinario lasciando la via all’Avvento, al tempo della Grazia trasformante che vuole ancora una volta, ancora con più forza, ricondurre a sé, quanto gli appartiene. Con la Solennità di Cristo Re si afferma che in Lui la “regalità” è sommamente realizzata, in Lui ogni trono, dominazione, maestà e potere perdono spessore e diventano paglia. Essere Re per la figura e l’opera del Salvatore, sta ad intendere una regalità non immersa nel lusso, nella ricchezza, nella condizione di privilegio o benessere, essere Re, è per Cristo Colui che scende, si abbassa, accoglie il grido dell’umanità ferita, smarrita, stordita, peccatrice, rinnegatrice, che si adatta al più conveniente anziché restare saldi, ancorati nella via della coerenza della fede ricevuta. Cristo Re, perché la Sua regalità non gli proviene da possedimenti alla maniera umana, quanto da Dio, poiché Dio Lui stesso. Allora ecco arrivato caro Avvento, benvenuto!!!
Il tempo liturgico, inutile soffermarci su questo, scandito dalle quattro settimane che porteranno al Natale del Signore, sono ancora una volta, quella mano tesa di Dio alle creature, che cerca, che vuole, che attende possano tornare a vederlo attivo, amorevole, presente nelle vite con quell’Amore, quella Cura, quella dedizione assoluta, totale che solo un folle Amore prevede e include. Avvento, sappiamo tutti essere “attesa”. Ma cosa ancora osiamo attendere? Chi è l’oggetto della nostra speranza? Dove è collocato il cuore sperando che Lui venga di nuovo, venga ancora in mezzo a noi e tra noi, ora. Inutile negarlo, la risposta è imbarazzante. Forse speriamo che venga un colpo di fortuna a cambiare la nostra vita, speriamo in quel lavoro che tarda a venire, speriamo di trovare l’amore della nostra vita che cambi il senso di vuoto, di solitudine di non compiutezza, speriamo tante cose. Attendiamo con impazienza che il tempo, dal quale tutto dipendere, che accadano cose, emozioni, esperienze, doni, ma aspettiamo e crediamo davvero che questo Piccolo Re, questo Bimbo Dio possa trovare spazio nelle nostre vite? Le emozioni ci sono, inutile negarlo, il Natale, the Christmas Time, commuove, produce nel cuore desiderio di felicità, lagrime irrigano volti, anche quelli apparentemente più induriti, provati dalle fatiche o dalle sofferenze della vita. Per andare verso una sintesi conclusiva della nostra riflessione, abbiamo fatto ricorso ad una immagine, possiamo dire poco usuale, che sta ad indicare una metafora molto vicina a ciò che possiamo dire rappresenta la Venuta del Salvatore, per alcuni e non per molti. L’icona cui facciamo riferimento è la “stalla”, la Grotta a Betlemme.
Voi potreste dire, ma perché parlare di Betlemme se ancora deve nascere questo bambino, questo Dio Bambino? Vero, giusta osservazione. Partiamo da questo semplice principio che sembra condurre, in maniera misteriosa e silenziosa il tempo dell’Avvento, della magica e misteriosa salvezza del Figlio di Dio. La stalla!!!
Pensiamoci bene quando addebitiamo a Dio appellativi non suoi, di un Dio distante, distratto, disinteressato alle problematiche dei suoi figli, pensiamoci. La sua venuta è stata difficile, quasi non accettata, respinta, fino a portarlo nascere in un luogo desolato, scomodo, freddo, maleodorante, pieno di muffa, senza nessun calore al di là di quello della sua Giovane Mamma, Maria, Sua Madre e Nostra, con il Suo Papà il Glorioso San Giuseppe, poche luci un fuocherello acceso, il soffio di due animali che diventano personaggi centrali nell’icona del Presepe, il bue e l’asinello. Questo lo scenario della Sua venuta, questa la condizione che lo ha visto protagonista venendo in questo mondo, dopo avere lasciato il Trono Celeste. Non dobbiamo dimenticare che la stalla di Betlemme, è figura di tante altre stalle o grotte, anche caverne possiamo dire, aperte nei cuori per tante tantissime motivazioni. Dio non si è disdegnato di sporcarsi nell’odore di una stalla che è divenuta dimora e luogo di pellegrinaggio per coloro che vedevano in questa grotta i segni messianici e profetici trovare la loro piena realizzazione. Dunque “la speranza”: La speranza non è semplicemente l’immaginare che le cose cambieranno, che ci sarà una data in cui si potrà tornare alla vita di prima, neppure che finalmente è stato scoperto il segreto di lunga vita o della perenne felicità. Abbandonarsi alla speranza non è cadere nelle braccia della rassegnazione, altra faccia della medaglia della paura, che invita a non fare nulla in attesa di tempi migliori: un alibi a buon mercato per non impegnarsi.
Al contrario, la speranza è l’arco portante della “perseveranza” a cui ci richiama fortemente il Vangelo. La perseveranza si nutre della fiducia nella promessa, che ci è stata fatta in Gesù, dell’amore di Dio che non verrà mai meno e, insieme, del tempo che offre infinite possibilità per accoglierlo e viverlo. La speranza accolta lascia il posto alla Luce che viene a diradare le nostre tenebre, i nostri vuoti, i nostri tradimenti piccoli o grandi, le nostre mancanze o infedeltà. La Luce illumina ogni angolo della stanza del cuore che diverrà così dimora per accogliere degnamente la venuta del Messia. Non dimentichiamoci della stalla di Betlemme per non lasciare che anche questa opportunità ci sfugga tra le mani a non riconoscere Colui che viene per Amore e non per errore.
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